“HANNO PORTATO IL CARICO DELL’UOMO ALLA CONQUISTA DEL MONDO MA OGGI PERFINO GLI ASINI SONO IN VIA DI ESTINZIONE.
DUE DELLE TRE SPECIE SELVATICHE E MOLTE RAZZE DOMESTICHE STANNO SCOMPARENDO. UN QUADRO DELLA SITUAZIONE DI UN ANIMALE DA SEMPRE INGIUSTAMENTE VITUPERATO”.
Forse fu re Mida il primo. Avendo favorito Pan rispetto ad Apollo in una competizione musicale le sue orecchie furono trasformate in quelle di un asino, la cui lunghezza basta a distinguere questo animale dal più “nobile” cavallo. Andare male a scuola e ricevere come riconoscimento un bel paio di orecchie d’asino è una prassi fortunatamente caduta in disuso e solo uno degli esempi della scarsa considerazione in cui sono stati tenuti questi animali, letteralmente da millenni. Sulle motivazioni di questo trattamento si potrebbe discutere a lungo: probabilmente il motivo principale è legato al ruolo di animale da soma, che segue tranquillamente il suo padrone il lunghe file, capace, una volta imparato, di percorrere lo stesso sentiero da solo, sempre lo stesso.
Certamente considerare l’asino un animale stupido e ignorante è un errore grave, così come è stata ed è sottovalutata la sua importanza nella storia dell’uomo, spesso a favore del cavallo o di altri animali domestici.
La fine dell’asino selvatico africano
Nonostante esistano (fatto sconosciuto ai più) ben tre specie diverse di asini selvatici, tutte le razze di asini domestici derivano da un unico progenitore, l’asino selvatico africano (Equus africanus), un bell’animale grigio, con il ventre e le zampe bianche, queste ultime striate, e una criniera corta ed eretta.
Animale adattato ai climi aridi, era presente in passato in tutta la regione sahariana, fino al Mar Rosso. Oggi è ridotto a poche centinaia di esemplari (il numero esatto è sconosciuto) in tre nuclei separati, costituiti da sottospecie diverse: l’asino selvatico nubiano (Equus africanus africanus), che vive tra Sudan settentrionale e Egitto meridionale a est del Nilo, e l’asino somalo (Equus africanus somaliensis), distribuito tra Etiopia, Eritrea e Somalia.
Non è stata la sfortuna a ridurre questo animale sull’orlo dell’estinzione, il cui stato è considerato “minacciato in modo critico” secondo gli standard internazionali. Apprezzato per la sua carne e per le proprietà medicinali attribuite ad alcune parti del suo corpo, l’asino selvatico africano ha ricevuto negli anni ’70 il colpo probabilmente mortale. I censimenti realizzati nel corso degli ultimi quarant’anni dagli avventurosi zoologi che sono andati a cercarlo nelle depressioni della Dancalia o nella valle di Nugaal in Somalia, a volte camminando per giorni prima di raggiungere le aree vulcaniche loro ultimo rifugio, hanno dovuto registrare una contrazione straordinariamente rapida delle popolazioni residue. In Somalia ad esempio, nella valle di Nugaal appunto, alla fine degli anni ’70 c’erano ancora tra quattro e seimila asini selvatici. Dieci anni dopo il numero era dimezzato, mentre nel 1997, secondo i pastori locali, nell’area rimanevano meno di dieci esemplari. Una storia analoga è quella di un’area dell’Etiopia, dove, nel 1970, l’asino selvatico è stato censito nelle aree nordorientali del paese, sorvolando a bassa quota la regione, quasi inaccessibile, con un piccolo aereo. La densità rilevata è stata di meno di venti animali ogni 100 chilometri quadrati.
Vent’anni dopo questa densità era ridotta probabilmente a uno o due esemplari. Il motivo di questa diminuzione è stata la diffusione di armi da guerra: con un kalashnikov in mano e correndo nel deserto su un potente fuoristrada non è difficile far fuori branchi interi di asini in poco tempo. Non è un caso dunque che la principale popolazione rimasta di asini selvatici africani (forse poche centinaia) sia localizzata in Eritrea, nella depressione Dancalia, una zona tremendamente ostile, dove la popolazione Afar esercita un controllo attivo sulla distribuzione e l’uso di armi e, tradizionalmente, non uccide la fauna selvatica. In Etiopia, al contrario, una ricerca basata su interviste ai pastori (sempre Afar ma di abitudini diverse…) ha rivelato come il 72 per cento dei maschi adulti abbia ucciso almeno un asino per potersi nutrire delle sue carni o usarlo come medicina che non potevano procurarsi in altro modo. In Somalia i pastori fanno una zuppa di ossa per curare la tubercolosi, la costipazione, i reumatismi, il mal di schiena e il mal di testa e danno la stessa zuppa anche ai loro animali come integratore di minerali. In conclusione, una stima del 2002 fissa a circa 500 il numero di asini selvatici africani ancora esistenti.
Il futuro di questi animali, straordinariamente adattati a sopravvivere in climi aridi e con scarsissime risorse alimentari (bastano 40 grammi di erba per metro quadro e una pozza d’acqua nel raggio di 30 chilometri), è legato alla loro protezione nelle aree dove ancora vivono (e alcune, data la difficoltà di accesso, sono ancora da esplorare, come certe zone del Sudan) e, probabilmente, all’allevamento in cattività di esemplari selvatici che possano poi essere reintrodotti in aree naturali protette. Attualmente diversi zoo del mondo ne custodiscono circa un centinaio di esemplari.
Gli asini di Marco Polo
Una situazione analoga riguarda una seconda specie di asino selvatico, l’onagro (Equus hemionus), una specie asiatica, di caratteristiche ecologiche simili a quelle del cugino africano. Nel pleistocene era distribuito in tutte le zone aperte, aride, del continente asiatico e arrivava fino in Europa, in Germania per la precisione. Oggi la distribuzione della specie (suddivisa in sei diverse sottospecie limitate a piccole aree) è estremamente frammentata, le popolazioni non sono più in comunicazione tra di loro e i gruppi più piccoli sono in gravissimo pericolo di estinzione per la possibilità di una siccità particolarmente forte o per una battuta di bracconieri.
Popolazioni di onagro sono presenti un po’ in tutti gli stati che vanno dal Medio Oriente, alla Persia, all’Arabia, fino all’Iran nordoccidentale, alle repubbliche russe meridionali e alla Cina e Mongolia. Marco Polo, nel suo viaggio, ebbe occasione di vederne grandi branchi lungo tutto il suo itinerario. Oggi più dell’80 per cento degli onagri del mondo vive in Mongolia meridionale (praticamente nulla si sa sulla popolazione cinese) dove però l’apertura di strade e la sedentarizzazione dei pastori nomadi (che arrivano a costruire recinzioni per non far accedere ai pascoli la fauna selvatica) stanno ponendo gravi problemi. Il suo stato, secondo gli standard internazionali, è considerato come vulnerabile, ma alcune sottospecie locali sono ormai estinte o minacciate in modo critico. Esistono circa 150 animali in cattività e diversi progetti di reintroduzione sono stati realizzati con diversa fortuna. Infine, per chiudere questa rassegna di asini selvatici, esiste una terza specie la cui sopravvivenza è quasi esclusivamente nelle mani dei cinesi. Si tratta del kiang (Equus kiang), separato dall’onagro solo all’inizio degli anni ’90 grazie a ricerche su base molecolare; un asino di dimensioni variabili dai grandi esemplari di quasi un metro e mezzo al garrese della sottospecie orientale a quelli di un metro della sottospecie meridionale.
La testa grossa e il mantello nocciola sopra e bianco nella parte inferiore del corpo, del collo e lungo le zampe lo rendono piuttosto caratteristico. Finalmente una buona notizia: nonostante la sua area di distribuzione sia sempre più frammentata questa specie viene considerata a basso rischio, ne esistono infatti ancora 60000 o 70000 esemplari in natura. Al contrario dei suoi parenti che amano le aree desertiche e le depressioni calde, questa specie vive nelle grandi steppe montane della regione tibetana e aree limitrofe, tra i 2700 e i 5300 metri di altitudine dove si nutre prevalentemente della graminacea che dà il nome a questo ambiente, la stipa appunto. Naturalmente anche in questo caso gli stravolgimenti dell’ambiente, la creazione di strade e ferrovie, l’abbandono delle antiche pratiche di rotazione nell’uso di pascoli da parte delle popolazioni di pastori nomadi, la competizione con gli allevatori per i pascoli stanno creando problemi che, si spera, possano essere opportunamente gestiti per evitare che si ripeta la triste storia delle altre due specie di asino selvatico.
Alla conquista del mondo
Quattromila anni prima di Cristo, nel basso Egitto, l’asino selvatico nubiano veniva addomesticato, probabilmente dai pastori della regione che lo utilizzarono come animale da soma, che aveva tra l’altro il vantaggio di non doversi fermare a ruminare come il bue. I trasporti su lungo raggio con l’asino permisero di arrivare al Mar Rosso, da lì al Medio Oriente. Il latte di asina, migliore di quello di mucca, era un pregiato alimento, una medicina e un cosmetico (utilizzo che sta favorendo il recupero contemporaneo dell’allevamento di questo animale).
Nel 1800 a.C. Damasco era descritta come la città degli asini nei testi cuneiformi. Centro dei traffici internazionali (grazie agli asini) in questa città venne selezionata una razza di grandi asini bianchi. Altre tre razze furono selezionate in Siria, tra le quali una dal passo leggero adatta alle donne. In Arabia, una razza locale – il Musqat, forte e chiaro – fu sviluppata in quegli stessi tempi ed è ancora oggi utilizzata. Nel secondo millennio dopo Cristo l’asino era arrivato in Europa e il salto in America fu compiuto con Cristoforo Colombo. Oggi, nelle pianure del West, corrono liberi branchi di asini inselvatichiti che discendono dagli animali usati a migliaia durante la corsa all’oro dai cercatori di fortuna.
Le razze di asino domestico oggi sono dozzine, ognuna con le sue peculiarità, selezionate pazientemente per i diversi utilizzi, carico, latte, carne, anche solo per essere accoppiati con i cavalli e generare i muli con i quali, in certe aree, ancora si caricava e si carica, la legna durante i tagli boschivi.
Con l’avvento della modernità gli asini hanno perso molto spesso la loro utilità e diverse razze hanno corso il pericolo di estinzione. L’asino dell’Amiata, quello dell’Asinara, di Martina Franca, quello siciliano o quello di Pantelleria sono solo alcuni esempi della varietà di razze italiane, di dimensioni, colore, attitudine e carattere differente, frutto di una lunga interazione tra le popolazioni che li hanno selezionati a proprio uso e le caratteristiche ambientali. Nonostante non si vedano quasi più le lunghe file di asini con i basti carichi di uva che rientrano in paese, gli asini stanno vivendo una nuova stagione. Apprezzati per la carne, le proprietà nutritive e la digeribilità del loro latte, il loro carattere socievole che li rende compagni di giochi dei bambini (è nata anche l’onoterapia, la terapia con gli asini), perfino la loro capacità di “asini da guardia” per proteggere gli armenti, sono sempre più diffuse le associazioni, in Italia e all’estero, che si occupano di recuperare e mantenere la purezza della razza.
Nel 2005 in Italia si è tenuto il primo convegno nazionale sull’asino e nascono nuovi allevamenti un po’ ovunque. Nei progetti di conservazione della natura gli asini vengono utilizzati per mantenere le formazioni erbose in un certo grado di sviluppo garantendo la sopravvivenza di orchidee e habitat ormai rari in Europa e i muli iniziano a essere di nuovo richiesti per svolgere lavori come il trasporto della legna nei boschi senza aprire nuove strade o usare mezzi meccanici in aree impervie, in modo da diminuire l’impatto ambientale in aree di rilievo naturalistico. E, se desiderate un asino ma volete evitare che i vicini si lamentino del sonoro ragliare dal vostro giardino, potete anche adottarne uno a distanza. Insomma l’asino domestico sembra aver cambiato ruolo nella nostra società.
Dopo averci accompagnato per millenni alla conquista del mondo, con alti e bassi, bastonato e vituperato, la sua dignità appare in deciso recupero. Se queste sembrano buone ragioni però non bisogna dimenticare l’animale dal quale questa ricchezza proviene, quell’asino che vaga nell’aria tremante di calore nel deserto della Dancalia, braccato senza sosta, alla ricerca di piccoli ciuffi di erba che gli servono per sopravvivere, frutto di un’evoluzione che dopo milioni di anni lo ha portato fino alle nostre mani e che rischia di essere ormai solo un ricordo del deserto.
(articolo di Alberto Zocchi, tratto “Modus vivendi”, n.8 anno XVI) |